La precarietà estende l’assenza di garanzie e la discontinuità di reddito a tutte le figure lavorative.
Le conseguenze
sono sotto i nostri occhi ogni giorno nelle università, dove il lavoro
è spesso gratuito, sotto forma di stages e tirocini, o semi-gratuito
con le docenze a contratto, peraltro regolate da criteri di reclutamento
arbitrari. Arbitrarietà che per le donne aggiunge l’aggravante di
venire discriminate per il fatto stesso di essere donne. La maternità
(o la sua potenzialità) diventa un motore di espulsione dal lavoro,
incidendo negativamente sulle assunzioni e le stabilizzazioni. Se in
Italia la percentuale delle donne laureate è il 55% del totale, quella
delle ricercatrici scende al 29%.
L’accesso
delle donne al mondo del lavoro è ormai riconosciuto come condizione
diffusa (anche se in Italia limitata, abbiamo infatti uno dei tassi
di occupazione femminile più bassi d’Europa), ma con le attuali politiche
assisteremo ad una trasformazione dei tempi di vita delle donne. Prendiamo
ad esempio tutti quei casi in cui le donne, pur di non perdere il loro
lavoro precario, si trovano a dover scaricare il lavoro di cura su altre
donne: le nonne o le migranti e le giovani precarie a cui consegneranno
parte o tutto il loro stipendio.
Il corpo delle donne viene attraversato da linee di potere specifiche e il conflitto di genere vive nelle nostre relazioni, come vediamo nel mondo delle università, della ricerca e del lavoro.
Non crediamo che il sapere sia neutro, non crediamo alla parità tra i generi quando proprio nell’università è evidente come nella gerarchia di potere le donne non arrivino quasi mai ai vertici della piramide, basta vedere il numero bassissimo di docenti ordinarie.
C’è una
cecità di genere e noi siamo intenzionate a vederci chiaro. Dobbiamo
e vogliamo mettere in gioco i nostri desideri e le nostre rivendicazioni.
Riteniamo che, dentro l’università, esista una completa assenza di
dibattito e di studi che affrontino le tematiche di genere, proprio
per questo pensiamo che la didattica ufficiale debba affrontare tali
questioni, attraverso la partecipazione diretta delle studentesse e
delle ricercatrici; così come al contempo rivendichiamo la necessità
di costruire momenti di autoformazione, attraverso cui costituire saperi
differenti.
Il corpo delle
donne continua ad essere il veicolo di politiche securitarie, approvate
a colpi di decreti, come il pacchetto sicurezza che individua nell’immigrato
l’unico colpevole delle violenze, o come il D.d.L. Carfagna che, criminalizzando
le prostitute, controlla e gestisce i comportamenti e i modi di esistenza
di tutte le donne. La presunta vulnerabilità delle donne diventa un
espediente per giustificare tutte le misure di controllo, dalla militarizzazione
delle strade alla criminalizzazione dei migranti.
Vogliamo un welfare che consenta l’indipendenza delle donne.
Vogliamo un consultorio in tutte le scuole e le università, così come un’educazione che parli di sessualità sin dalle scuole elementari.
Non vogliamo
pagare noi la crisi, non vogliamo rispondere all’appello al sacrificio,
non vogliamo delegare a nessuno le decisioni sul nostro presente e sul
nostro futuro, non vogliamo subire un controllo sempre più pervasivo.
Riteniamo fondamentale
portare questo dibattito nelle università in mobilitazione, farlo vivere
nella proposta di autoriforma e declinarlo nelle rivendicazioni
del movimento .
Il 22 novembre, alla manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, vogliamo costruire uno spezzone nazionale come studentesse, ricercatrici e dottorande che porti la forza e la determinazione dell’onda.
Non sarà un punto di arrivo, ma un momento di denuncia e di reazione sulla violenza contro le donne.
Saremo onda ancora una volta: riprenderemo i nostri spazi invaderemo e bloccheremo la città .
Perché non
saranno i nostri corpi nè i nostri desideri a pagare la crisi!
Donne in onda della Sapienza in mobilitazione
Fonte: www.uniriot.it