{tab=La locandina}
{tab=Una donna}
A una donna, magistrato, madre di una bambina di tre anni, viene affidato un caso di mafia, quello di Londono. Siamo in Colombia alla fine degli anni ‘90.
Un monologo tutto al femminile, raccontato dalla protagonista già morta, una donna che combatte, prima che contro la mafia, contro il sistema di magistratura colombiana, che ritiene le donne inferiori dagli uomini.
Una donna che mai si abbandona al lirismo, all’autocompiacimento, all’autoconsolazione, e che con lucidità parla di sè come donna, madre, e magistrato.
Il monologo è interpretato con una tecnica attorica antinaturalistica, con uno studio approfondito del valore dello sguardo e dei ritmi della camminata.
I temi musicali, creati da Roberto Calabrese, sono originali e sono nati dall’interazione tra testo scritto e interpretazione scenica.
40 minuti con il fiato sospeso, grazie alle parole meravigliose con cui si descrive la Colombia nelle sue varie sfaccettature, la sua povertà, i gamines, la storia di Rosa, la metropoli con i Mc Donald’s. Difficile non farsi rapire e catturare dalla povertà, impossibile non tornare con la mente alle uccisioni di mafia del nostra paese.
Liberamente ispirato al testo “Fiori di Bogotà”, di C. Fava, lo spettacolo è a cura dell’Associazione culturale Il vuoto graffiato.
{tab=Donne che scivolano su un piano inclinato}
Tratta da un’opera dell’autore italo argentino Daniel Fermani, la rappresentazione nasce da una sperimentazione sulla punteggiatura.
Due donne, una madre e una figlia, parlano, discutono, si accusano, si confrontano sul passato e sul presente; sul corpo che cambia, sulla diversità generazionale, sulle difficoltà ad accettare i segni del tempo sul proprio stato fisico.
Due donne che incarnano il mito di Demetra e Persefone.
Due donne i cui caratteri e le cui peculiarità ricordano le eroine della tragedia greca, della mitologia. È una continua discussione intorno a temi ciclici, ricorrenti, universali ad ogni donna, ad ogni generazione.
Un eterno conflitto che lega madre e figlia, uno scambio di vissuti, un rinfacciarsi di vuoti, di cose non dette e di altre non capite. Anche in quest’opera, come nelle altre, risulta inconfondibile lo stile del drammaturgo, parole che arrivano come sassi, monologhi duri, taglienti, che penetrano il pubblico senza via di fuga. Due attrici di età differente e provenienza quasi antitetica, si confrontano con la “crudezza” di una tematica complessa e sempre viva in ogni momento della vita, dall’adolescenza alla giovinezza; quella del distacco dalla propria madre, della conoscenza dell’amore, della sessualità, delle scelte individuali e del cambio di percorso. Il dramma di una madre che, come Demetra, non si riconosce in sua figlia, la bambina che lei ha generato. Una figlia che non riconosce in se stessa, ancora, la donna che diventerà, ma ha ormai abbandonato la bambina che era.
Lo stile recitativo e drammaturgico non è né drammatico né naturalistico; ma, come lo stesso drammaturgo richiede, vissuto attraverso il proprio corpo; con elementi scenici minimi e nessun supporto esterno.
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